Raccontare la guerra in P4l3st1n4, in algospeak
Per aggirare la censura e lo “shadowban” gli utenti online devono ricorrere a parole crittografate. C’entra la precauzione, ma soprattutto l’opacità degli algoritmi delle piattaforme.
Se raccontare l’invasione di Gaza dal campo può costare la vita, farlo da casa può costare i propri followers. È quello che stanno sperimentando sulla propria pelle centinaia di account pro-pal, che sono state vittime del cosiddetto “shadowban”, una forte riduzione esercitata dagli algoritmi dei principali social (Instagram e Facebook in primis) della capacità di raggiungere le persone che seguono il proprio account.
Parliamo qui di persone comuni che hanno visto una forte riduzione delle visualizzazioni delle proprie storie dopo essersi espresse sull’argomento, ma anche e soprattutto di influencer e professionisti che hanno recentemente segnalato varie forme di applicazione o censura disomogenea. Tra questi ultimi compare anche la giornalista vincitrice del premio Pulitzer del New York Times Azmat Khan, che ha affermato che il suo account Instagram da 7.000 follower “è stato oscurato” dopo aver pubblicato una storia sulla guerra a Gaza. Ma c’è anche a chi è andata peggio: il giornalista Ahmed Shihab-Eldin ha dichiarato che il suo account Instagram — che aveva più di 100.000 follower e pubblicava spesso post sulla Palestina — è stato permanentemente chiuso…