Il 90% di Tutto: L’Asia Domina la Classifica dei Porti Commerciali Mondiali

Filippo Lubrano
4 min readFeb 21, 2019

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9 dei primi 10 porti commerciali sono in Asia. Il 10° è in Medio Oriente. Storia di come il baricentro economico del mondo si è spostato prima che ce ne accorgessimo.

“ Il 90% di Tutto”, come scriveva un libro della giornalista Rose George purtroppo mai tradotto in Italia, si muove via nave. E quando dico tutto, intendo proprio tutto. Tutto quello che avete addosso in questo momento, tutto quello che mangiate, tutto quello che consumate culturalmente, ha a fattor comune il fatto di essere stato trasportato via nave.

Qualsiasi cosa stiate consumando, abbiate addosso e anche mangiate, è probabile sia partito da un porto asiatico. Cinese, soprattutto. 9 dei primi 10 porti mondiali sono in Asia: l’altro è in Medio Oriente, a Dubai.

Rotterdam, all’11esimo, è il primo degli europei. Era sesto fino al 2004. Non è crollato perché ha diminuito le proprie movimentazioni. Anzi. È cresciuto del 50% in meno di 15 anni.

I porti commerciali più grandi al mondo: TEU movimentati nel 2004 vs 2015 — fonte: Wikipedia

Cos’è successo allora?

Che gli altri sono cresciuti del 100, 200, in alcuni casi 300%.

Shanghai, Shenzhen, Ningbo. Hong Kong che è l’unico porto cinese che è diminuito in quanto a movimentazione – e non è un caso, perché da quanto è passato dal controllo britannico a quello cinese il piano è quello di limitare fortemente la sua influenza, per poter controllare meglio la scomoda ex colonia ribelle. Ma le nuove forze, anche marittime, sono tutte ad est.

Cosa significa tutto ciò?

Beh, il conto è spicciolo, non certo fine: si contano i TEU, i twenty-foot equivalent unit, ovvero il numero di container movimentati. Non certo il loro valore. Ma l’indicatore è significativo anche in termini assoluti. La bilancia commerciale cinese è in attivo con tutti i Paesi al mondo tranne la Corea del Sud. 2.500 mld di dollari di export a fronte di circa 1.500 di import.

Fino a qualche anno fa anche la Germania figurava col segno ‘+’ tra valore di esportato e importato nei confronti della Cina, ma il rallentamento del mercato domestico nel settore automotive del Dragone e la competizione sempre più feroce dei brand cinesi anche in questo campo ha eroso la principale fonte di export tedesco.

Cosa esportano dunque i cinesi?

Principalmente, componentistica elettronica. Mentre importano molti circuiti – ad ulteriore testimonianza che la Cina si sta votando verso un mondo sempre più hi-tech –, ma anche petrolio e… soia (principalmente dagli USA: ricordate la Guerra dei Reggiseni? Se no, ci torneremo sopra…).

Circuiti elettronici: la prima voce di import in Cina

Ma fare i conti sul valore dell’export e dell’import presenta delle trappole: in alcuni casi la contabilizzazione del prodotto viene fatta a ‘valore pieno’, anche se il valore aggiunto che effettivamente rimane sul campo in Cina è tutto sommato relativamente basso. È il caso della Apple con gli iPhone, ad esempio.

Un po’ di storia

Per la Cina, questo afflato marittimo è sviluppo piuttosto recente. Storicamente, l’Impero di Mezzo si è sempre concentrato sui suoi confini terreni interni, più che sulle sue rive. Non è un caso che l’opera più conosciuta di tutti i tempi in Cina, la Grande Muraglia, sia stata fatta per mitigare le minacce provenienti via terra.

Il mare e l’oceano non costituivano una minaccia percepita in maniera significativa, né quindi se ne percepivano le opportunità. Un’attitudine che è cambiata sensibilmente con la Belt and Road Initiative, che guarda alla rotaia ma anche – e parecchio – al mare.

Il precedente: Zheng He

L’eccezione che conferma la regola è quella dell’ammiraglio Zheng He, che nel XV secolo, prima di Colombo, dispose di una flotta composta di navi dieci volte più grandi del suo omologo genovese (genovese?), ma le utilizzò principalmente per scoprire nuove terre, senza la deriva colonialistica che in Europa era invece la prassi.

La nave di Zheng He rispetto alla caravella di Colombo

Il Futuro: la Belt and Road Initiative

Al colonialismo, in effetti, in Cina hanno sempre preferito un approccio commerciale. L’invasione all’Africa è stata silente, e mirata più al sourcing delle materie prime che all’offensiva al mercato locale — anche se qualche effetto collaterale positivo c’è comunque stato, soprattutto negli stati più ricchi. La Belt and Road Initiative, pur con tutti i limiti e le difficoltà che sta esperendo, sarà la logica conclusione di questo processo.

La mappa della Belt and Road Initiative (BRI)

La nuova via della Seta poggia molto sui binari ferrati stesi da Pechino in ogni angolo più remoto dell’Eurasia, ma l’altra stampella è in realtà un mezzo marinaio, che vuole sfruttare questo dominio marittimo, e renderlo ancora più schiacciante. Non è un caso che i Cinesi abbiano attivato una fase epocale di “Shipping shopping” prima a Gibuti, poi in altri snodi strategici tra cui soprattutto il Pireo, e pare a breve anche in Italia (Trieste e/o Genova). L’accerchiamento è pianificato: e con la consistenza dei programmi politico-economici cinesi, non è davvero più questione di se, ma solo di quando.

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Filippo Lubrano
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Written by Filippo Lubrano

Innovation and Internationalization Consultant, Journalist, Writer (Cybersec, Asia, Poetry)

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